La Verniana, 6 maggio 2001

   Conobbi Don Angelo nei primi anni settanta, grazie all’indicazione di un amico che aveva avuto bisogno del suo aiuto.
Da circa dieci anni soffrivo di un forte esaurimento e, salvo rari periodi, la mia vita lavorativa e familiare era un inferno. Il mio amico fraterno, medico, cercò di aiutarmi con ogni mezzo a sua disposizione; mi fece visitare da neurologi, mi accompagnò da un suo collega specialista in tali malattie, ma niente cambiò. I medicinali m’intossicavano il fegato senza concedere un po’ di riposo alla mia mente turbata; tutto era per me difficile, il mondo intero mi sembrava senza speranza.
Arrivai alla Verniana molto presto e già c’era molta gente nell’attesa di essere ricevuta da Don Angelo. Non avevo chiesto il permesso in banca, perché avevo pensato che, con un appuntamento, sarei riuscito ad entrare in orario. Il tempo passava e il mio stato d’eccitazione si faceva sempre più insopportabile. Chiesi a Maria, la signora che mi aveva fissato l’appuntamento, se poteva concedermi il favore di farmi ricevere da Don Angelo. Lei mi guardò e forse si rese conto della mia condizione: oggi mi dice che facevo veramente impressione. Mi trovai perciò di fronte a Don Angelo con il cuore che mi balzava alla gola. Mi guardò al di sopra degli occhiali e subito, con aria autoritaria mi disse: “ Lei è fortemente intossicato. Butti via tutte quelle medicine”.
Poi si alzò e mi venne , mi abbracciò e, con aria paterna, mi disse di stare tranquillo, che tutto sarebbe passato, ma che avrei dovuto seguire, con costanza, le sue prescrizioni ed i suoi consigli, di recitare spesso le preghiere ed in particolare quella che si trova dietro il santino con l’immagine di San Michele Arcangelo, che ebbe la premura di darmi, e di tornare presto da lui.
Quando uscii mi sentivo un po’ meglio ed andai a lavoro.
Con attenzione facevo tutto quanto Don Angelo mi aveva detto, ma avevo spesso bisogno di incontrarlo, perché mi ero accorto che da ogni colloquio con lui ricevevo sostegno, forza e comprensione. Diventammo amici: ci sentivamo anche per telefono e spesso m’invitava ad andare da lui, il pomeriggio, quando le altre persone se n’erano andate.
Conobbe anche la mia famiglia e mia moglie in particolare della quale avvertiva soprattutto la sua psiche. Premetto che lui non era mai venuto a casa nostra ed un giorno, essendo andato da lui con mia moglie un po’ angosciata per la lontananza dei nostri figli che erano andati all’università e affaticata per il lavoro che le procurava la grande casa nella quale abitavamo, senza che lei gli facesse presente il suo stato d’animo, appena la vide le disse:
“Non pensi a quelle 13 porte. I figli come li vuole meglio di così?
La nostra casa ha veramente 13 porte ed i nostri figli sono sicuramente come meglio non si potrebbe desiderare.
Un’altra volta tornai da Don Angelo con un mio carissimo amico, valente medico, molto onesto nell’esercizio della sua professione e molto stimato dai pazienti e dai colleghi. Anche lui, assillato da mille problemi, non stava bene. Don Angelo, pur non conoscendolo neppure attraverso le mie parole, lo abbracciò con molto affetto e conversò con lui molto a lungo per dargli forza e coraggio. Chiacchierarono soprattutto di medicina e chiese a lui consigli; volutamente non parlò della situazione che intravedeva, ma al momento di salutarci lo consolò con queste parole:
“Dottore si ricordi che il mondo ha bisogno di medici come lei e di sacerdoti come me.”
Poi con una scusa, mi trattenne e mi chiese:
“Ma che famiglia ha quest’uomo? Dica a loro di lasciarlo in pace”.

   Nacque fra i due un rapporto di profonda stima, fino al punto che Don Angelo lo volle più volte vicino a sé, per consiglio e per conforto, durante l’ultimo periodo della malattia che lo portò alla morte. Quando fu nominato vescovo, me ne dette notizia e, per suo ricordo, mi donò una foto con cornice che lo ritrae con i paramenti sacri dell’episcopato: questa si trova appesa alla parete accanto al mio letto. Andavo spesso da lui, ma qualche volta mi capitava di non poterlo fare, allora mi telefonava per ricordarmi che mi aspettava. Mi chiamava dottore anche se sapeva che ero solo impiegato in banca. Quando glielo facevo osservare lui mi diceva che ero più dottore di qualche altro. Era per me più di un padre e traevo dalle sue parole ogni volta più sicurezza e conforto, tanto che mia moglie, quando mi vedeva un po’ in difficoltà, mi diceva sempre di correre subito da Don Angelo. È facile immaginare quale vuoto lasciò in me la sua morte.
Spesso per l’anniversario della sua scomparsa andiamo a Partina a pregare presso la sua tomba e spesso parliamo di lui, sia con persone che lo hanno conosciuto, come Maria e Giocondo che vado spesso a trovare a Verniana, sia con quelle che non l’hanno conosciuto, ma che avrebbero tratto dall’incontro sollievo per le loro afflizioni.
Oggi più che mai sono certo di averlo sempre vicino, pronto a darmi una mano nei momenti più difficili; qualche volta mi è capitato persino di risentire il suo profumo di lavanda, di quell’acqua di lavanda che lui faceva da sé e che ci regalava sempre quando andavamo a trovarlo.
Di ritorno da un viaggio in Polonia e Ungheria cominciai, dopo dieci giorni, a sentirmi molto male. Era il 6 settembre 1999. All’improvviso fui colpito da gran dolore alle ossa, da fortissimi brividi. L febbre era altissima seguita da abbondante sudorazione, mentre un grosso herpes sul labbro inferiore e un gran dolore al fianco sinistro mi affliggevano ogni minuto di più; inoltre ebbi sette giorni di completa atonia intestinale con conseguente rifiuto per il cibo: un’ecografia aveva messo in luce un principio di pleurite al polmone sinistro. Il mio amico medico, ormai in pensione come me, pensò subito che ero stato colpito da una malattia infettiva presa durante il mio ultimo viaggio, ma gli altri medici e le stesse analisi, fatte in un momento in cui la sintomatologia dolorosa si stava affievolendo, non lo confermarono. A cicli abbastanza precisi gli attacchi si ripeterono, non sempre con la stessa intensità, per cinque volte, ma sempre più debilitanti. Analisi in laboratori diversi, visite da specialisti…, ma nessuno prendeva in considerazione l’ipotesi fatta dal mio amico. Non volevo ricoverarmi , ma l’ultima volta, nonostante le molte cure, fui costretto a farlo perché la pressione era bassissima, avevo delle aritmie cardiache, la pleurite era peggiorata, la glicemia si era portata a livelli elevati e la pancia, piena di liquido, era tornata tesa e senza alcun movimento.
Venti giorni d’ospedale, con accertamenti d’ogni tipo, prelievi e radiografie giornaliere, antibiotici a dosi massicce e flebo sempre attaccate con qualche problema e con le prime supposizioni di un tumore non ben localizzato. La disappetenza continuava a persistere, la glicemia si manteneva sempre alta, le aritmie sempre più frequenti; ero ridotto uno straccio e passavo le giornate in un continuo stato saporoso e in un bagno di sudore. Una tac, fattami fare a Perugina, indicò un ascesso alla milza perciò il chirurgo di questo ospedale mi disse che questa doveva essere tolta al più presto. Intanto, le analisi del liquido pleurico, che mi era stato prelevato, aveva dato come risposta una salmonella: nessuna delle analisi precedenti, anche se fin dalla prima ricerca era una fra le risposte da dare, l’aveva rilevata. Ogni giorno che passava, nonostante gli attacchi non si fossero più ripetuti, il mio stato di salute andava peggiorando. Mentre mi trovavo ricoverato, Monica, un giovane medico amica dei miei figli, per caso, all’ospedale di Padova aveva sentito parlare alcuni colleghi di un signore ungherese che era li ricoverato perché colpito da un’infezione molto grave: aveva la mia stessa sintomatologia, senza niente di più o in meno. Seppe che i medici si erano messi in contatto con un collega ungherese e che, dopo aver a lui piegato la patologia del paziente, questi aveva risposto che la malattia era stata causata da un virus appartenente al ceppo della Borrelia, malattia endemica in Ungheria, e che l’unico medicinale necessario per la guarigione era il cloramfenicolo. Grazie a Dio quel signore stava riacquistando la salute.

   Monica non perse tempo e con una telefonata ci passò la preziosa informazione. Subito furono avvertiti i medici curanti che non dettero peso all’indicazione, ma presero la decisione di inviarmi quanto prima a Perugina per l’intervento. Quella sera mia moglie tornò dall’ospedale disperata. Andò davanti alla foto di Don Angelo ed invocò il suo aiuto, con tutto lo sconforto del momento. Il mattino successivo ebbe la sorpresa di vedermi avvicinare al cibo con appetito e di trovarmi più sollevato. Ricordo che mi aveva portato le preghiere di Don Angelo perché le recitassi spesso.
Dovevo essere trasferito direttamente dall’ospedale dove mi trovavo a quello di Perugia, ma due giorni prima dell’intervento il primario mi consegnò la cartella clinica da portare al chirurgo e, senza spiegarci il perché, decise di rimandarmi a casa, sotto una bufera di neve e con il rischio di una broncopolmonite. Il giorno precedente al mio nuovo ricovero, vedemmo capitare i, inaspettato, il mio amico medico, del quale ho già parlato. Questi ci disse di aver sentito dentro di sé un imperioso invito di Don Angelo a venire da me, per impedirmi di andare a Perugina e fare l’operazione perché, nella migliore delle ipotesi avrei peggiorato la situazione, ma potevo anche morire; ribadì che la mia malattia era determinata da un virus che, cosa doppiamente tragica, con il mio intervento si sarebbe infettata la sala operatoria.
Cercammo di parlare con il chirurgo dell’ospedale di Perugia e finalmente nel primo pomeriggio lo potemmo fare: non era stato messo al corrente della scoperta della salmonella e ci ringraziò caldamente, da parte sua e per i suoi pazienti, per averlo avvertito del pericolo. Aggiunse anche che, con quaranta giorni di un’adeguata cura, avrei risolto tutti i miei problemi: mi salutò ringraziandomi ancora e facendomi tanti auguri. Comincia a prendere il cloramfenicolo ( che fra l’altro è efficace anche per la salmonella) e la mia salute cominciò a rifiorire. Presto ripresi i miei dieci chili perduti ed anche la mia vita normale. Le ecografie di controllo dimostrarono che l’ascesso e tutto il resto stava regredendo e due mesi dopo tutto era quasi scomparso.
   Chi aveva messo insieme tutte queste coincidenze? Chi aveva permesso che il mio amico medico e Monica si trovassero lì al momento giusto? Perché il primario, pur non mancando i posti letto, mi rimandò a casa prima dell’intervento?
La prima a riconoscere il miracolo voluto da Don Angelo è stata mia moglie e lo sostiene con tutti quando ricorda l’accaduto. Io non ho dubbi, perché ho sentito Don Angelo sempre vicino a me, anche dopo la sua scomparsa, pronto a sostenermi come ha fatto tutte le volte durante i nostri colloqui. Devo a lui molto per non dire tutto e spero di meritarmi sempre il suo sostegno e la sua intercessione. Oggi, anch’io come tanti altri, h sentito la necessità di far conoscere quello che ho avuto da Dio tramite Don Angelo, perché mai si perda il suo ricordo e delle sue opere e perché tramite lui si rafforzi la nostra fede. Termino questo ricordo con le stesse parole che disse tanti anni fa al mio amico medico e dentro le quali c’è, oggi più che mai, una grande verità:
”Il mondo ha bisogno di medici come lei e di sacerdoti come me“.

In fede
Franco Tiradritti