[Quella che segue è una testimonianza assai particolare di NDE (Near Death Experience) che ha vissuto l’amico Antonio di Carpi (Mo) durante i suoi giorni di coma.   

E’ una testimonianza un po’ lunga ma dalle molte sfaccettature che merita veramente di essere letta per intero e che  dovrebbe farci molto riflettere…

Buona lettura!]

L’Uomo dal mantello porpora

 

– Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita di chi avrò timore?

Di Te ha detto il mio cuore: , il Tuo volto, Signore, io cerco.- (Sal 27, 1e8)

 

Vi possono essere, nella nostra vita, accadimenti e situazioni a cui non riusciamo a dare la giusta collocazione e che, come tessere di un mosaico, scopriamo parte di un unico disegno, di un unico progetto, solo nel loro porsi accanto ad altri tasselli, ad altri accadimenti.

Nel Maggio del 2003, una cara amica viene a trovarsi ricoverata nel reparto di rianimazione dell’ospedale dove entrambi lavoriamo da molti anni. Inevitabilmente colpito dalla notizia ottengo, con altri colleghi, il permesso di andarla a trovare regolarmente. Lo stato di coma in cui versa ormai da diversi giorni, dovuto a gravi problemi renali, non sembra accennare ad alcun miglioramento. Con il passare dei giorni, sempre più a cuore mi sta la sua situazione.

È in questo periodo che mi si presenta, per la prima volta, un sogno che mi colpisce molto per la sua “realtà” e forza. Il ricordo di questo sogno e di tutti quelli che, con l’identico protagonista, seguiranno, rimane vivo in me come una esperienza reale, vissuta pienamente, concreta. Vi compare un uomo che, in questa e in tutte le successive esperienze notturne in cui si ripresenta, indossa un manto porpora ed è sempre di spalle, offrendo, al massimo, un profilo accennato che lascia intravedere la barba, lineamenti sereni ed un sorriso. Non proferisce, ne mai lo farà, alcuna parola.

Verso la fine dello stesso mese, mi reco, in compagnia di un amico, presso un monastero in Piemonte, dove trascorrere una settimana in condivisione con i fratelli e le sorelle che ci ospitano.

Nella notte del 21 Maggio, un Mercoledì, durante il sonno, con impressionante realtà, mi si ripresenta l’uomo con il mantello porpora. Lo vedo, sempre di spalle, in piedi al lato di un letto, in cui riconosco l’amica ricoverata in rianimazione. Vedo questo uomo afferrarle la mano come ad invitarla a sedere e vedo lei aprire gli occhi ed iniziare a compiere il movimento richiesto.

Quell’uomo accenna a ruotare il viso verso di me e, sempre tenendole la mano, sorride, mi sorride. Mi risveglio. Al mattino la forza e il contenuto di quel sogno non mi abbandonano, dopo lodi, nella tranquillità offerta dal monastero, racconto all’amico con cui condivido questa settimana, della collega e del sogno di questa notte e dell’uomo che vi compare e che da un po’ visita le mie notti, gli racconto del turbamento che mi accompagna. Ne io, ne tantomeno l’amico sappiamo o osiamo fare ipotesi sul sogno e soprattutto su chi è o cosa rappresenti quell’uomo che vi compare.

Nella stessa mattinata mi raggiunge la telefonata di una dottoressa, anch’essa collega in ospedale, che mi informa che da alcune ore l’amica in rianimazione ha ripreso conoscenza e si può dire fuori pericolo. Non so e non oso lasciar correre i pensieri. Ho un felice turbamento. Ringrazio Dio per il suo amore per questa figlia, perché le mie, le nostre preghiere hanno trovato accoglienza presso Lui. In tutti i successivi mesi, molte altre volte sogno di questo uomo, sempre coperto dal manto porpora sulle spalle e che mai mi si mostra in volto, ma sempre in un profilo accennato, oppure di spalle, intravedo il suo sorriso. Noto, con il vivere questa esperienza, che questo uomo arriva nei miei sogni sempre dopo giornate particolarmente tese o turbate, dopo giornate in cui avvenimenti o situazioni, legati a me stesso o a persone che mi sono care, mi hanno scosso. Arriva dopo giornate di dolore o di paura. Non posso evitare di pensarlo, di pensare a chi può essere o rappresentare, ma in una sorta di pudore, non arrivo mai a formulare o a pronunciare  nomi o ipotesi che mi paiono essere troppo grandi per poter essere dette. So di trarre da queste “visite”, pur sempre brevi, pur senza mai parole, pace e serenità, nuova forza per reagire alle situazioni avverse, nuova fiducia di essere e voler rimanere e mai dubitare, dell’amore di Dio. È un grande dono che mi è concesso, quello di sentirmi sempre e comunque nei progetti d’Amore di Dio. Dono che mi sorregge e conforta anche quando i disagi, inevitabili o subiti, della disabilità si sommano ad altri problemi, come a quelli di un tumore che da anni mi vede impegnato nel tentativo di tenerlo circoscritto e controllato. Oppure sommati a problemi respiratori che a partire dal Gennaio 2005 si fanno presenti nella mia vita. Proprio questi ultimi tendono ad accentuarsi sempre più e, nell’ Agosto 2005, ho una violenta crisi respiratoria, angosciante. Davvero è brutta la fame d’aria. Non è la prima volta che succede, non sarà l’ultima. Tante le ipotesi formulate, quella corretta la si scoprirà solo mesi più avanti, drammaticamente.

Sento che la fatica si fa importante, il respiro sempre più accelerato, poco funzionale. I dolori, legati al tumore e che avrò modo di dire in seguito, sempre più importanti e presenti. Il progressivo avanzare delle difficoltà di salute e delle altre difficoltà correlate – perché alle malattie lunghe, croniche, si associano spesso altre situazioni non facili – le confido a chi mi è vicino, per loro non sempre è semplice capire perché il sorriso, la serenità l’accettazione dei guai che si sommano a quelli già esistenti, non lascino in me il posto ad altri sentimenti o atteggiamenti. Così come non è semplice per me dire, per loro comprendere, il valore che do alla sofferenza e perché mi riesca di parlarne a volte come di un dono. Forse non lo so neppure io, so solo che non è un atteggiamento ricercato volontariamente, è solo ciò che ho radicato profondamente in me e non faccio altro che, con inevitabile normalità, viverlo . Posso solo ribadire che in ogni situazione bella o brutta, positiva o meno, vivo la grazia di sentire forte la presenza e l’amore di Gesù nella mia vita.

L’inverno del 2005, inizia e trascorre con un senso di affanno sempre maggiore e che si presenta anche dopo sforzi che paiono banali, accompagnati da un continuo senso di malessere. I vari sintomi aumentano, sommandosi ad altri e trovando, nella notte tra il 2  e il 3 gennaio 2006 la loro manifestazione più drammatica.

Ricordo, infatti, quella notte, spaventosa, faticosa, senza respiro. Ricordo il mio resistere alle insistenze dei miei per un ricovero, resistenze assurde, ora lo so. Ricordo finalmente l’ambulanza che viene chiamata e il viso dei miei cari, quello di Silvio che mi sorregge il capo fin sull’ambulanza. Poi ricordo e non ricordo, fino a quell’ultima frase che qualcuno gridava ad altri: “lo perdiamo, lo perdiamo”. Poi basta, tutto quello che è avvenuto su di me, intorno a me, sul mio corpo è un ricordo che ho perché mi è stato raccontato. Mi diranno della polmonite bilaterale che, non lasciava pressoché più spazio e possibilità allo scambio di ossigeno. Mi diranno delle funzioni vitali, massicciamente e costantemente sostenute. Mi diranno delle condizioni generali gravemente compromesse e che lasciavano presagire un epilogo che, umanamente, pareva inevitabile. Per me, quel periodo è stato solo buio, senza dolore, senza tempo.

Tutto così, fino al mattino del 7 gennaio, un Sabato. Tutto cosi, sino alla comparsa, nel buio, di una luce, ancor distante ma già irresistibile, irrinunciabile, da raggiungere, da accogliere. Era passata una frazione di secondo, un alito di tempo da che avevo chiuso gli occhi immergendomi nel buio, giorni di coma mi è stato spiegato poi. Nel farsi prossima di quella luce sento voci di  persone che intuisco affaccendate intorno a me e che parlano di me, preoccupate, agitate. Non ne capisco il motivo, così come non capisco, ma non mi preoccupa, il mio essere così calmo in questa situazione così agitata intorno a me, come distaccato da ciò che sento; cosa ci fanno là, intorno a quel “me” che, intuisco, credono in pericolo. Quel “me” che io percepisco altrove e nessuno se ne accorge e sto bene. Ma quella luce è ormai troppo intensa, mi chiama e richiama la mia emozione che allora si, comincia a crescere. Non percepisco il tempo o come questa luce si fa prossima, o io a lei, percepisco il calore profondo che dà, non sulla pelle, come lo dà il sole, ma un calore dentro che posso descrivere come pace, che posso descrivere come bellezza e benessere dell’essere lì. E di non essere soli, perché in quella luce intravedo una figura, umana, venire verso di me, farsi incontro. Chi sarai? Aspetto, la mia emozione cresce, ma è una emozione dolce che sa crescere insieme alla pace del cuore. Come quando sulla soglia della chiesa aspetti colei che da lì a poco diverrà tua moglie, c’è l’emozione, forte, ma che sa convivere con la pace e la certezza che arriverà, sta arrivando, la si vede già laggiù nel fondo della piazza. Arriverà e sarà per sempre. Ed io quella figura che mi si fa prossima, quel uomo, io l’ho già visto, ne riconosco il muoversi, il passo. Anche il mantello porpora, che sempre ha avuto sulle spalle nei sogni forti, “reali”  in cui l’ho visto…l’ho già visto molte volte, nel bisogno, mio o di chi amo…ma, sino ad allora, sempre di spalle, sempre e solo a girare leggermente il volto, quel tanto che mi concedeva di intuirne la barba, la serenità, il sorriso. In quelle notturne visite non ho mai osato chiedere a quel uomo chi fosse, troppo grande il nome che mi cresceva in petto, troppo forte per non confondere la mente. Ci facciamo sempre più prossimi uno all’altro, entrambi in piedi, camminando, non ho, ne mai  avrò in tutto questo incontro, neppure il ricordo di essere mai stato su di una carrozzina, mi percepisco in piedi e in grado di camminare. É ormai di fronte a me in questa meravigliosa luce che ci avvolge, luce di pace, di energia, di vita. Come posso definire ciò che sento? Pace emozionata? Emozione pacifica? Trepido e mi annullo, mentre mi sorride, mi abbraccia, mi bacia. Nella profonda tenerezza di quel gesto, nel trattenermi tra le sue braccia nasce dal mio cuore la domanda a lungo trattenuta… no, è una testimonianza: . Avevo infatti imparato a riconoscere, nel telo Sindonico, un volto umano perfettamente formato e vitale e che ora riconoscevo davanti a me. Mi risponde una voce certamente amata e conosciuta pur senza mai averla udita prima: . Come posso descrivere il totale appagamento e l’assenza di bisogni, come posso, a parole, rendere la pace, l’essere finalmente a casa che questo abbraccio e questo incontro mi donano. Un incontro che accoglie, libera, rigenera. L’anima e il corpo. …. È ancora Lui che mi sorride e dice: . Insiste la mia voce, a reclamare per sempre quella pace infinita che sto ora vivendo a voler restare in quella luce trascendente, in quel tempo e spazio senza riferimenti, dilatato, restare in quel sempre. Di nuovo mi parla: , ho un momento di silenzio prima di rispondere:. Sempre avvolti in quella splendida luce, sempre avvolti nel suo calore coinvolgente, pacificante senza bisogni se non quello, che chiedo, di restare lì per sempre, è ancora la Sua voce: . Di nuovo mi abbraccia, di nuovo mi bacia…e di nuovo è il buio e la voce del medico, che riconosco, parla della mia morte, di come avvisare mia moglie… Riapro allora gli occhi, il medico, già sulla porta del box che mi ospita, si deve fermare, ho sempre amato scherzare, stupire. Riapro gli occhi a questa terrena luce, così infinitamente lontana dalla Luce che ho conosciuto, eppure cara anch’essa. Riapro gli occhi e la prima immagine che colgo è l’orologio che sta sulla parete e l’ora che segna, poi quei volti che mi guardano stupiti e ricominciano ad armeggiarmi intorno, operosi, indaffarati. Sono subito cosciente di ciò che percepisco e vedo, riconosco le voci di chi mi sta accudendo come le voci che avevo sentito prima di incamminarmi verso la Luce e sono in grado di abbinarle ora alle persone che mi stanno accanto, come pure saprò riferire ciò che li avevo sentiti dire. A fatica, con un filo di voce, a causa del tubo di ventilazione che mi scende in gola, cerco di chiedere come mai siano tutti così indaffarati intorno a me, il medico, riavvicinatosi, mi dice che è questo l’Antonio che vuole sentire, ascolto le altre persone parlare tra loro, perplesse, chiedendosi come potevo esser ancora lì e ventilare. Rispondo che lassù, Qualcuno ci ama…Il medico manifesta in modo colorito, la sua contrarietà alla mia affermazione. Ho dunque riaperto  gli occhi alla vita, li ho inevitabilmente riaperti anche al dolore, quello che già conosco e quello nuovo che subito si presenta, quello dei tanti tubi che ti invadono ovunque, quello della grande fatica a parlare e a farsi comprendere, perché troppo esile la voce. Subito cosciente, voglio informazioni, le chiedo facendo cenno di volerle scrivere, sarà più semplice comprendermi…ricomincio così a comunicare. Una lastra radiografica del torace, eseguita a poche ore, conferma che la situazione polmonare è sostanzialmente invariata e, forse, questo aumenta le perplessità di chi mi sta accanto. Ho dunque riaperto gli occhi alla vita…a questa vita. Ci vorranno giorni per incominciare a condividere ciò che ho vissuto.

Il giorno seguente, Domenica 8 Gennaio e nei giorni a seguire, mi si dice che devo essere paziente, collaborante, che sarà ancora difficile e lunga la mia permanenza in rianimazione. Non sanno ancora, forse non lo so del tutto neppur io, che la mia dimissione è già stata firmata ai piani alti. Mia moglie e i parenti vengono informati che la situazione è e permane grave e pressoché oggettivamente invariata, fatto salvo lo stato di coscienza. Pertanto non è possibile ancora porre una prognosi.

Dal giorno successivo, Lunedì 9 Gennaio, la situazione precipita. In genere usiamo questa espressione ad indicare situazioni che dal brutto volgono al tragico, nel mio caso la uso ad indicare il precipitare inarrestabile verso il meglio. La polmonite regredisce improvvisamente e rapidamente, oggi già del 50% circa. Da questo momento ogni previsione viene smentita al meglio il giorno dopo. Il miglioramento è anzi, così netto che, già Mercoledì 11 Gennaio, i medici decidono di tentare il distacco dalla ventilazione assistita. Quasi inevitabilmente, questo primo tentativo mi crea difficoltà e ansietà, facendomi rivivere tutte le sensazioni del non farcela a respirare, con la conseguente necessità di essere riattaccato alla macchina. Per questo e per il fatto che nella notte corro il rischio, insieme agli altri ricoverati in rianimazione, di dover essere trasferito in altra città e ospedale a causa del difettoso funzionamento del sistema di emergenza elettrica dell’ospedale, ricado in momenti di panico, di sconforto, di sfiducia. Tutto si risolve al meglio e ritrovo fiducia e serenità che subito torneranno utili nel giorno che sta incominciando, Giovedì 12 Gennaio, quando di nuovo vengo staccato dalla ventilazione assistita, anzi, vengo proprio estubato. La ritrovata calma e fiducia, l’incoraggiamento di chi mi assiste, la certezza dell’incontro che mi ha riportato a questa vita, mi sostengono nel tentativo e, da questo momento, utilizzerò una semplice mascherina per l’ossigeno.

Quella che, pochissimi giorni prima, era stata preannunciata come una ancor lunga permanenza in rianimazione ed una situazione ancora molto difficile, viene smentita. Già Venerdì 13 Gennaio, si parla apertamente di trasferimento in reparto ed è forse solo la particolare attenzione e protezione che tutto il personale ha nei miei confronti a far slittare ancora di pochi giorni questo evento, che però si compie Lunedì 16 Gennaio.

Vengo trasferito in una camera singola del reparto di medicina. Lo pneumologo che in giornata mi visita, afferma che se non ci fosse la tac a dimostrarlo, non crederebbe alla situazione clinica che ha letto in cartella.

‘lincontro che accoglie, libera, rigenera. donano.la pace, l’mai averla udita prima: no, è una testimonianza: << .a a lungo trattenuta.rmi tra le sue bracciafondere la mente. L’assistenza che, ancor oggi, mi si è detto avrei dovuto ricevere per molto tempo ed anche in un ancor lontano ritorno a casa, si riduce a quindici giorni in reparto, ormai autonomo, passati più per sicurezza che per necessità.

Intanto incomincio a partecipare a mia moglie, alla famiglia, a qualche persona cara la mia esperienza, il mio incontro col Signore. È stupore negli altri, ma ogni volta nuovo anche in me, e nuova coscienza, nuova consapevolezza. Anch’io sono timoroso, intimidito da un Amore manifestato così grandemente e che ancora, ancor oggi mentre scrivo, mi visita e mi accoglie, nella stessa Luce di allora, nello stesso calore, nello stesso incontro, con la stessa pace. Resto timoroso ma consapevole, certo, di non voler sciupare questo dono, col Suo aiuto.

 Nell’incontro personale con chi conosco o arrivo ad incontrare, porto la testimonianza di ciò che il Signore ha agito nella mia vita. Mi viene consigliato, sempre più per scrupolo e sicurezza, più che per reale necessità, di aspettare ancora prima di rientrare al lavoro. Arriva anche quel giorno e piano piano anche chi mi sta amorevolmente intorno prende fiducia nel mio star bene, concedendomi maggiore libertà dalle tanta attenzioni e protezioni di cui mi hanno fatto dono in questo periodo. Arriva anche il momento di ricominciare a dare attenzione ai problemi che esistevano a monte del mio ricovero in rianimazione.

Infatti, da anni sono in cura, sotto varie forme, l’ultima delle quali chemioterapica, per cercare di tenere sotto controllo un tumore, la cui manifestazione primaria è a carico di una vertebra lombare. Non posso affrontare l’operazione chirurgica perché presenta percentuali di rischio che non sono accettabili. Il tumore ha visibilmente intaccato il corpo vertebrale, minandone la stabilità, nel concreto, a me da segno della sua presenza attraverso il dolore alla schiena, a volte continuo, più leggero ora, più intenso adesso. Arriva a volte improvviso, a volte sordo e continuo. Durante il giorno oppure svegliandomi nella notte, costringendomi a cercare, seduto nel letto, una posizione che lo possa alleviare. L’ho, lo abbiamo un poco trascurato in questo periodo, troppi i farmaci assunti nei giorni di rianimazione per pensare ad altre cure in questi altri pochi mesi. Io ho forse provato a dimenticarmi un po’ di lui, ma lui ha ben pensato di ricordarmi la sua presenza nel modo che gli riesce meglio, il dolore. Mi è stata richiesta una TAC per fare un nuovo punto di partenza.

Mi sottopongo alla TAC, con la tranquillità e la fiducia di essermi comunque affidato come sempre al Signore che mi ha concesso forse il dono più grande, non dubitare mai del suo Amore. Mi preoccupa però il viso strano con cui il medico, quello che conosce tutta la mia storia clinica , mi si fa incontro e cerca le parole per dirmi qualcosa, mi comunica che se non fosse stato lui a seguirmi in questi anni, ad eseguire molta della diagnostica, direbbe che chi mi ha diagnosticato quel che sappiamo, ha preso una cantonata. Non ha più trovato nessuna traccia di lesione tumorale, in nessuno degli organi indagati, tanto meno a livello della colonna lombare. È il 3 Maggio. Mi chiede di volermi sottoporre ad una nuova TAC, completa, da eseguire con mezzo di contrasto. Vuole non avere dubbi, vuole conferme certe. Mi dico d’accordo, nella stessa seduta verranno testati anche innumerevoli markers tumorali. Mi attende esattamente tra una settimana, Mercoledì 10 Maggio.  Questo tempo passa nella mia intima convinzione, partecipata a pochi, di essere stato nuovamente, inaspettatamente liberato dalla malattia. In questo tempo il dolore alla schiena è comunque presente, insistente, come sempre. Arrivato il giorno fissato per il nuovo esame, sdraiato sul lettino della TAC, mentre la macchina esegue le scansioni, un calore intenso, improvviso, mi si diffonde in tutto il corpo. In questo calore il dolore alla schiena, fino a quel momento presente, istantaneamente sparisce, scompare e da allora non si è mai più ripresentato. L’esame conferma l’assenza di una qualsiasi lesione tumorale, i markers tutti negativi, compresi quelli positivi da anni. Io confermo ad oggi, mentre scrivo, l’assenza di qualsiasi dolore, dopo anni di continua compagnia.

 Confesso che essere toccati così  assiduamente,concretamente dall’amore di Dio lascia euforici, ma anche tremanti. Certamente riconoscenti, innamorati di questo Amore che è Dio. Bisognoso di capire cosa ho ricevuto, cosa ho da dare. Ancora torno a fare partecipe di questa guarigione mia moglie, i figli, le persone care. Torno a far partecipe chi ho il dono di incontrare, di quanto il Signore ha operato nella mia vita. È questa, quella del rapporto personale, la via che ho sentito di dover percorrere, rifiutando una pubblicizzazione forte, che sento non appartenermi.  Capita però, forse inevitabilmente, di essere invitato a dare testimonianza in gruppi più o meno numerosi. È li che, forse, si manifesta più grandemente lo Spirito Santo, nelle parole che fluiscono non cercate, nell’ascolto alto di chi le accoglie, nella testimonianza reciproca e negli innumerevoli doni e segni che ne seguono. Prendo coscienza in questi mesi di come l’Amore di Dio ha operato la mia guarigione certo come segno evidente, tangibile per me, ma anche come segno e presenza del suo Amore nella vita di molti. Questo segno straordinario dell’Amore di Dio, come un sasso gettato in uno stagno, ne increspa le acque in cerchi concentrici che si espandono, poco dopo i nostri sensi non sanno più percepirli, ma essi continuano a diffondersi  toccando le sponde più lontane come le più vicine, raggiungendo quel canneto laggiù come pure quella singola canna un po’ piegata. Provocando, ne sono certo, altre, innumerevoli guarigioni dello spirito, voglia di riconciliazione, con se stessi, con gli altri,con Dio.

Perché poi Dio abbia scelto me per manifestare così visibilmente il Suo agire, rimane un mistero anche per me. Amici mi dicono perché me la sono “cercata”, scherzando un po’ sul fatto che davvero ho avuto la grazia di volermi e sapermi affidato completamente al Signore. In tutta la mia imperfezione. Se Dio, nella sua “follia” d’Amore per l’umanità, mi ha voluto in qualche modo come strumento di un suo disegno, io posso solo sperare di saperlo essere con libertà, disponibilità, umiltà.